L’area originariamente paludosa del Velabro, dalla quale deriva l’appellativo della chiesa di San Giorgio nelle due varianti “in Velabro” e “al Velabro”, secondo l’etimologia proposta da Marco Terenzio Varrone nel De Lingua Latina prenderebbe nome dal verbo vehere (“trasportare”) o velaturam facere (“traghettare”); in epoca medioevale la sua etimologia fu arbitrariamente cambiata in vellum aureum; nel 1259 è attestata la forma Vellaranum. La zona, che si estendeva a nord-ovest del Palatino ed era contigua al Foro Boario e al vicus Tuscus, sin dall’età repubblicana fu un importante luogo di commercio fino al VI secoloquando, forse in seguito alla grande alluvione del 589, acquisì una vocazione strettamente religiosa ed assistenziale. Nel XVI secolo la chiesa è stata nota come “San Giorgio alla fonte” per la vicinanza con la fonte di acqua minerale, situata nei pressi dell’arco di Giano, che da San Giorgio trae il suo nome.
Le origini della chiesa di San Giorgio non sono ben note. Il più antico documento nel quale si farebbe menzione di essa sarebbe l’Itinerario Salisburgense (620-640), nel quale viene citata una «basilica quæ appellatur sci. Georgii», identificabile con l’edificio preso in esame in quanto, secondo quanto affermato da Richard Krautheimer basandosi su quanto scritto da Christian Hülsenfino a tutto l’alto medioevo, sarebbe stato l’unico in città dedicato al megalomartire (l’agostiniano scalzo Federico di San Pietro, che nel XVIII secolo realizzò una pubblicazione su San Giorgio in Velabro, cita invece una lettera del 590 di Gregorio Magno all’abate Mariniano, riguardante anche una chiesa intitolata a San Giorgio e necessitante di restauri, che lui reputa essere situata in Roma mentre si trovava a Palermo); la precedente iscrizione sepolcrale proveniente dalle catacombe di San Callisto, di Augustus, lector «de Belabru» (datata al 461 o 482) potrebbe riferirsi al domicilio del defunto, oppure ad una qualsiasi chiesa del Velabro. La più antica menzione certa è stata identificata nella biografia di papa Zaccaria (741-752), nella quale si fa riferimento alla traslazione della testa del santo nella «venerabili diaconia eius nomini, sitam in regione secunda, ad Velum aureum» dal complesso lateranense ove era stata rinvenuta. L’intitolazione al martire sarebbe dovuta alla presenza nell’area, abitata da una fiorente colonia greca, di monaci orientali rifugiatisi a Roma per le persecuzioni iconoclaste e monotelite; san Giorgio, inoltre, «era patrono delle milizie bizantine di stanza nei pressi» del Foro Boario.
Quella di San Giorgio, fu una delle prime diaconie, istituite all’epoca di papa Gregorio Magno (590-604) come distaccamenti all’interno del centro abitato dell’«organizzazione centrale di assistenza» sorta nel V secolo all’interno del palazzo del Laterano, il quale all’epoca si trovava in un’area poco abitata. Nascendo come strutture caritative, non erano originariamente destinate al culto e solo in un secondo momento vennero affiancate da un oratorio; la stessa diaconia di San Giorgio sorse all’interno di «un preesistente edificio civile» (erroneamente identificato come la basilica Sempronia, che invece era localizzata nel Foro Romano) «successivamente adattato e trasformato nell’attuale chiesa»,il cui nucleo più antico potrebbe risalire agli inizi del III secolo; è stata avanzata l’ipotesi che tale adeguamento sia avvenuto durante il pontificato di Leone II (682-683), indicato nel Liber Pontificalis come colui che avrebbe fondato presso il Velabro una chiesa dedicata ai santi martiri Sebastiano e Giorgio, passo che però secondo Louis Duchesne risulterebbe interpolato dopo il X secolo e dunque non del tutto attendibile.
È probabile, come ricostruito da Krautheimer, che l’edificio si presentasse con una «facciata simile a quella di una casa privata», una serie di vani e una cappella absidata in posizione arretrata. Il complesso venne radicalmente restaurato sotto Gregorio IV (827-844), come riportato nel Liber Pontificalis, quando probabilmente venne integralmente convertito in luogo di culto con la realizzazione dell’abside, delle navate laterali, di una nuova sacrestia e della decorazione pittorica interna a fresco. Fu infatti in epoca carolingia che le diaconie, concentrate in particolar modo nell’area compresa tra la Ripa Græca e il Foro Romano, acquisirono un’articolazione costituita da tre componenti: una chiesa monumentale (in luogo del precedente oratorio di modeste dimensioni), un annesso cenobio ove risiedevano i monaci che prestavano servizio, e la diaconia vera e propria deputata alle funzioni assistenziali.
Nel XIII secolo vennero apportate importanti aggiunte alla chiesa, che era una collegiata officiata dal clero diocesano: all’inizio del secolo il priore Stefano Stella modificò la facciata facendo aprire il rosone e realizzare il portico (aggiunta, quest’ultima, operata nel secolo precedente in diverse chiese della città come Santi Giovanni e Paolo, San Lorenzo in Lucina e Santa Maria Maggiore), mentre è del 1259 la prima testimonianza scritta relativa al campanile; inoltre, nel 1296 o 1297 il cardinale diacono Giacomo Caetani Stefaneschi fece restaurare la chiesa. Tra il 1477 e il 1484 il cardinale Raffaele Sansoni Galeotti Riario fece rifare il tetto.
Nel 1566 papa Pio V visitò la chiesa di San Giorgio e, constatandone lo stato di degrado, donò per ornarla numerose iscrizioni antiche che si trovavano nei palazzi vaticani. In seguito al Concilio di Trento venne riorganizzata l’area presbiterale con la demolizione della schola cantorum; tale operazione venne condotta nell’ambito dei più ampi restauri del 1610-1611, voluti dal cardinale Giacomo Serra; nel 1612 la chiesa venne affidata agli agostiniani, che nel 1730 fecero costruire un nuovo convento attiguo su progetto di Francesco Bianchi. Durante il pontificato di Clemente IX (1667-1668) fu demolita l’ultima campata destra del portico per consentire la costruzione di una nuova sacrestia con accesso indipendente sull’esterno.
Nel 1704 il cardinale diacono Giuseppe Renato Imperiali fece realizzare la cancellata del portico e la decorazione pittorica dell’interno; in particolare, il nuovo soffitto ligneo della navata centrale (posto a copertura delle capriate fino ad allora a vista) venne dipinto da Francesco Civalli e, poiché rovinato da infiltrazioni, fu ridipinto da Benedetto Fabiani nel 1774. Nel 1748 agli agostiniani subentrarono i frati minori conventuali i quali rimasero solo due anni, venendo sostituiti nel 1750 dagli agostiniani scalzi; quest’ultimi lasciarono il complesso nel 1798per la sua posizione insalubre e le pessime condizioni in cui versavano le strutture. La chiesa, devastata e depredata delle sue suppellettili, venne adibita a magazzino di olio e vino. Dal 1789 al 1820 la stazione quaresimale venne traslata presso la chiesa di Gesù e Maria, retta dagli agostiniani scalzi.
Per tutto il XIX secolo e gli inizi di quello successivo, la chiesa, che nel 1819 venne concessa da papa Pio VII con i locali annessi all’Adunanza dei Giovani di Santa Maria del Pianto e riaperta al culto, fu oggetto di ripetuti restauri ai quali si alternarono periodi di abbandono. Il primo, importante intervento di ripristino venne condotto agli inizi degli anni 1810 sotto la direzione di Filippo Nicoletti e riguardò sia l’esterno (incluso il campanile), sia l’interno; tuttavia già nel 1819 ne dovettero essere eseguiti degli altri, con la realizzazione nel primo intercolumnio della navata di destra, di una nuova sacrestia (alla quale papa Pio VII concesse alcuni marmi provenienti dall’incendiata basilica di San Paolo fuori le mura per ricavarne un lavabo) e la demolizione di parte dell’ex convento. La chiesa fu nuovamente sottoposta a restauro tra il 1820 e il 1824 tramite interventi strutturali e decorativi, con l’edificazione degli archi rampanti sulla navata sinistra per sostenere quella maggiore e del nuovo prospetto su disegno di Giovanni Azzurri. Nel 1828 Giuseppe Valadier intervenne sulle murature perimetrali per contrastare l’umidità, ma l’anno successivo la chiesa risultava chiusa al culto per le sue condizioni precarie e adibita a cantina. I gravi danni causati dalla caduta di un fulmine sul campanile, avvenuta nel 1836, resero necessari nuovi lavori che seguirono un acceso dibattito sull’eventualità di demolire la torre per liberare l’arco degli Argentari, e furono condotti l’anno successivo dall’Azzurri. Un parziale isolamento dell’arco fu messo in atto soltanto nel 1869 in contemporanea ad un nuovo consolidamento del campanile. Papa Pio IX concesse la chiesa e l’ex convento al Pontificio Seminario Romano. L’8 dicembre 1907, dopo anni di abbandono, la chiesa venne riaperta al culto ed affidata all’Associazione Popolare dell’Immacolata; due anni dopo si procedette ad un restauro dell’interno e in particolare dell’
Nel 1923 divenne cardinale diacono di San Giorgio in Velabro Luigi Sincero, il quale promosse un intervento di consolidamento e ripristino di un aspetto quanto più possibile simile a quello medioevale mediante la demolizione delle superfetazioni successive, secondo l’uso inaugurato da Giovanni Battista Giovenale nel radicale restauro della vicina basilica di Santa Maria in Cosmedin del 1896-1899. I lavori furono affidati ad Antonio Muñoz (che già aveva operato analogamente nelle basiliche romane dei Santi Quattro Coronati nel 1912-1914, e di Santa Sabina nel 1914-1918) e terminarono nel 1926: furono ripristinate le finestre del cleristorio del IX secolo, demoliti gli altari laterali e la sacrestia ottocentesca, aperte le finestre tamponate del campanile, e venne rifatta la decorazione parietale dell’abside; inoltre, scavando sotto il pavimento dell’aula (che venne abbassato di due gradini), furono rinvenuti «vari resti di strutture murarie antecedenti alla costruzione della chiesa ed un muro parallelo alle colonne della navata destra […] individuato come la fondazione della schola cantorum» e di una piccola abside semicircolare davanti all’attuale presbiterio, in asse con l’originario ingresso della chiesa che era spostato a sinistra rispetto all’attuale.