Aurelio Colasanti

Il protagonista di questo romanzo nasce a Roma, in una piovosa mattina del 5 novembre 1914, in un grande appartamento al primo piano del civico 64 di via San Teodoro. 

Costretto sin da subito a seguire la tradizione familiare, particolarmente caldeggiata dal padre Tito, noto magistrato della Corte d’Assise di Roma, che prevedeva la nascita dei figli rigorosamente in casa con il solo ausilio di una esperta allevatrice, il povero Aurelio si trovò dopo poche ore dalla sua nascita già orfano di madre: l’emorragia che colpì donna Sofia era di una gravità tale che la pur esperta Carmelina la battezzò come un “inconveniente” di difficile risoluzione. Con delle forbici normali accuratamente disinfettate nell’acqua bollente tagliò il cordone ombelicale. Non perdendosi d’animo, mentre donna Sofia si predisponeva a rimettersi nelle mani del Signore la levatrice continuò ad occuparsi del bambino; dopo averlo ben lavato e asciugato, lo fasciò dal collo ai piedi con una striscia di stoffa bianca alta circa 15 centimetri e molto lunga: doveva mantenergli diritta la schiena e le gambe.

Aurelio non conobbe che le amorevoli e pietose attenzioni della sorella di papà Tito, che si dedicò allo sfortunato nipotino come se fosse stato il figlio che non aveva tanto desiderato ma che non avrebbe mai avuto, vivendo la particolare condizione della zitella con prole con una dignità encomiabile.

La profonda religiosità del padre portò il piccolo Aurelio a fare una precoce conoscenza dei suoi “fratellini più grandi”, così come aveva imparato a chiamare i padri crucigeri della vicina chiesa di San Giorgio al Velabro : uno splendido edificio in stile romanico del XIII secolo le cui origini sembrano comunque perdersi nel primo medioevo ; il più antico documento nel quale si farebbe menzione di essa sarebbe infatti l’Itinerario Salisburgense scritto nel settimo secolo d.c. nel quale viene citata una «basilica quæ appellatur sci. Georgii», identificabile con l’edificio preso in esame. Ci sono, per altro, ulteriori testimonianze documentali che parlano di una chiesa intitolata a san Giorgio e bisognosa di restauro già nel 590 d.c. Aurelio mantenne l’abitudine di passare la maggior parte del suo tempo tra il collegio dei padri crucigeri e la attigua chiesa di San Giorgio anche dopo aver iniziato la scuola elementare al più prestigioso collegio di San Giuseppe de Merode, da cui era ovviamente passato anche papà Tito. Trascorse gran parte della sua vita da studente in quello splendido edificio di piazza di Spagna, sino al compimento della maggiore età quando si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’università Sapienza nella nuovissima sede della città universitaria del quartiere tiburtino.

 Desideroso di seguire le orme del padre in magistratura, Aurelio si dedicò con grande impegno agli impegnativi studi di legge che una università così prestigiosa ed impegnativa richiedeva, tanto da laurearsi in quattro anni, con il massimo dei voti; la discussione della tesi di laurea: ”L’esercizio di un diritto e l’adempimento di un dovere come causa di esclusione del reato: natura giuridica, concetto, regime di tale scriminante” meritò invece la lode ed il bacio accademico.

 Ormai lanciatissimo verso una promettente carriera in ambito giudiziario, Aurelio venne però inaspettatamente dirottato verso la polizia di stato da degli inaspettati e per certi versi poco credibili, a detta dello stesso papà, fallimenti al concorso in magistratura. Ne tentò ben quattro prima di rassegnarsi e seguire il lungimirante consiglio del padre e vincere al primo tentativo il concorso per vicecommissari nella polizia di Stato.

 La sfortuna che aveva conosciuto nei suoi infruttuosi tentativi di seguire le orme del padre sembrava magicamente scomparita all’interno del nuovo ambiente lavorativo; ogni porta si apriva ai suoi desideri, sembrava nato per svolgere quella professione.

  La sua prima esperienza, prima di passare alla leggendaria squadra mobile di Roma dove si sarebbe fatto conoscere per le sue qualità che lo avrebbero portato ad una meritata promozione a Commissario, la svolse però al primo reparto celere di stanza nella sua città natale. Aurelio avrebbe sempre considerato quella esperienza come una condicio sine qua non per i successi che gli arrisero alla squadra mobile: “altamente formativa per il carattere ed il naturale modus operandi di un bravo funzionario” soleva ripetere ai giornalisti o ai colleghi che gli ricordavano quella esperienza.

 Il più grande successo professionale da vicecommissario lo raggiunse però una volta trasferito alla sezione omicidi della squadra mobile, diretta dal bravo ed integerrimo Giovanni Romano che aveva voluto proprio lui a dirigere una sezione così delicata come quella che lui stesso aveva diretto sino alla sua promozione. La risoluzione del caso Zappalà valse al giovane vicecommissario Colasanti un encomio che avrebbe aperto una corsia preferenziale per la meritatissima promozione al grado di Commissario.

  In realtà un altro encomio lo ricevette nell’estate del 1948 per i fatti accaduti il 14 luglio di quell’anno a seguito dell’attentato al segretario nazionale del partito comunista Palmiro Togliatti; comandato di servizio di ordine pubblico per i violenti disordini di piazza che si scatenarono poche ore dopo, ricevette durante una violenta carica che aveva comandato al reparto celere di effettuare per impedire ai manifestanti di invadere via del Tritone, un colpo di spranga al volto che gli fece perdere i sensi e gli fece guadagnare, oltre all’encomio, una vistosa cicatrice sul volto che andava dalla fronte sino allo zigomo destro. Malgrado lui pensasse il contrario, il suo fascino verso il gentil sesso aumentò notevolmente in seguito a quello sfortunato incidente.

  Il resto è storia dei nostri giorni, con la recente e altrettanto brillante risoluzione del caso dell’omicidio della piccola Chiara Lombardi e gli inevitabili incidenti di percorso arrecati da una stampa sin troppo prona agli interessi del comunismo sovietico.

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STRALCI DELL’INTERVISTA RILASCIATA AL PERIODICO MENSILE “POLIZIA MODERNA” DEL MARZO 1951.


-Dottor Colasanti, anzitutto colgo l’occasione per ringraziarla di aver accettato di fare quattro chiacchiere con la nostra rivista così tanto seguita all’interno del Corpo. 

 Sono io che ringrazio voi e la vostra rivista per avermi dato l’opportunità di rivolgermi ai miei colleghi e sottoposti di tutta Italia.

-Signor Commissario, le recenti vicende di cronaca nera hanno sconvolto l’opinione pubblica non solo romana ma dell’intera Nazione, come vive lei questa situazione di grande preoccupazione per tutti?  

-Mi permetta di negarvi una qualsivoglia ipotesi di risposta ad una domanda che implica il riferimento a fatti e circostanze coperte dal più rigoroso segreto istruttorio.

-Ben conosciamo la procedura penale, dottore e ci dispiace che non abbia voluto fare una piccola eccezione nemmeno per Polizia Moderna, molti dei suoi più giovani ed inesperti colleghi avrebbero potuto imparare davvero molo dalle sue illuminate parole.

-A tempo debito… sarà mia cura dare tutte le delucidazioni che un caso così delicato impone.

-Molto bene, aspetteremo con ansia una sua risposta a tutte le domande che, come ben può immaginare, sono tantissime. Ma passiamo ad altro. Lei nel 1946 riceve un encomio per la brillante risoluzione del caso Zappalà, premio che le valse poi la promozione a Commissario. Si è trattato di un premio assolutamente meritato e, ci permettiamo di aggiungere, ingeneroso nei confronti delle sue indiscusse capacità investigative. Dottor Colasanti, vogliamo dire ai nostri lettori qual è il suo segreto? Come riesce a risolvere enigmi apparentemente irrisolvibili ed a far trionfare la verità?

-Penso sia una questione di metodo. È importante anzitutto rispettare il più rigorosamente possibile le procedure investigative che ci vengono insegnate per poi adeguarle alle proprie caratteristiche ed alla propria esperienza, innovarle se necessario. Guardi, io ricordo ancora come se fosse ieri le parole del Commissario Capo dottor Romano, comandante della squadra mobile, al momento in cui per la prima volta ho solcato la soglia del suo ufficio: “Aurelio, ricordati che la verità fugge come il tempo: più questo passa, più la prima si allontana.” Per me queste parole costituiscono il principale metodo di investigazione.

-Il tempo è essenziale! Molto bene, Commissario la ringraziamo per questo suo preziosissimo suggerimento che sicuramente i nostri lettori non tarderanno a far proprio.

-Ma io voglio sperare che la maggior parte dei miei colleghi delle squadre mobili d’Italia stiano già utilizzando con profitto questa imprescindibile regola.

-Non ci vorrà negare qualche altro importante suggerimento…

-Guardi, la ringrazio per l’opportunità che mi date per comunicare i miei metodi d’indagine. Allora, ciò che ho imparato a fare nel corso della mia esperienza investigativa è la completa immedesimazione con la scena del delitto, mi spiego meglio : quando mi reco sul posto o visiono delle fotografie della vittima cerco di creare un canale comunicativo con la medesima : mi avvicino a lei e le chiedo silenziosamente di parlarmi , di dirmi quali indizi debba seguire.

-E quali risultati riesce ad ottenere, la vittima le parla?

-Molto più frequentemente di quello che si possa pensare, non solo la vittima, ma l’intera scena del delitto è ricca di indicazioni ed utili spunti che devono però trovare il bravo investigatore pronto a seguirli.

-Qualche riferimento al caso Zappalà?

– Il 15 novembre del ’45 intorno alle 23,45 ci fu un brutale omicidio nel quale il povero Zappalà Luigi fu freddato nel suo appartamento con tre colpi di pistola in pieno petto, dopo un furioso corpo a corpo da una persona rimasta per lungo tempo identificata dai pochi testimoni della scena come un uomo alto le cui fattezze erano state irrimediabilmente nascoste dalle falde del cappello; l’unico elemento che fui in grado di raccogliere dalle testimonianze fu il nome di battesimo del presunto omicida. Mi rimisi allora ai possibili indizi presenti sulla scena del crimine: dall’analisi dei documenti e delle note personali presenti nel suo appartamento risalii all’esistenza un grosso debito che la vittima aveva contratto nel periodo dell’occupazione tedesca e che non aveva mai onorato. Grazie poi agli ulteriori esami testimoniali riuscii a capire che era stato proprio l’inadempimento di questo debito il movente del delitto.

-Maturato in ambienti particolarmente depravati, ebbe modo di scoprire.